Bisolino torna in Romagna. Perché Brescia non è Cesena. E Salò non è Martorano…

È di questi minuti l’ufficialità: Dimitri Bisoli torna a giocare in Romagna, dopo aver militato nell’Under 15 e Under 16 del Cesena tra il 2008 e il 2010 e, successivamente, nelle fila del Santarcangelo dal 2013 al 2015. Si lega al Cavalluccio con un triennale a circa 250mila euro l’anno, dopo quasi una decade passata a difendere i colori del Brescia di cui nelle ultime stagioni era divenuto capitano.
La scelta di Bisoli junior desta stupore, ma fino a un certo punto. È innegabile che nelle turbolente vicissitudini delle ultime settimane, che hanno segnato il destino delle rondinelle, se c’era un’anima che pareva brillare per la sua fedeltà incondizionata era proprio quella del figlio di Pierpaolo. A seguito della controversia sui versamenti di IRPEF e INPS che ha condotto alla penalizzazione del club, e dopo che il patron Cellino non ha pagato gli stipendi di giocatori e staff relativi alle mensilità di marzo e aprile (necessari all’iscrizione al campionato successivo), il Giornale di Brescia riportava dichiarazioni ‘rincuoranti’ da parte del capitano biancoblù: «Il Brescia siamo noi, in caso ci sono per ogni categoria». Frasi apparentemente in controtendenza rispetto a quanto poi avvenuto in seguito. Un percorso in apparenza inaspettato però profondamente ragionato.
Erano parole ricolme di ardore quelle con cui Dimitri Bisoli palesava la sua disponibilità a rinunciare al professionismo, a ripartire persino dall’Eccellenza pur di onorare la squadra di una città che ormai sentiva sua. Il sogno era quello di abbracciare un ‘nuovo’ Brescia, un club ex novo di risorgere dalle macerie lasciate da chi aveva deliberatamente scelto di calpestare 114 anni di storia. «A priori non escludo niente. Vediamo chi prende il titolo che garanzie può dare e darmi: il Brescia è la mia vita e a me la categoria non interessa».
Tuttavia la strada politica intrapresa dall’amministrazione comunale di Brescia per ripartire ha portato ad una situazione spinosa e complessa, sulla quale chiunque si esponga apertamente rischia di scontentare qualcun altro. Quel che sta accadendo è un film già visto e rivisto, pure qui a Cesena. Lo scorso 9 giugno, la sindaca Laura Castelletti ha convocato le proprietà di Lumezzane, Feralpisalò e Ospitaletto (tre squadre della provincia bresciana che militano in Lega Pro) per esplorare la loro eventuale disponibilità a trasferirsi in città, cambiando denominazione e colori sociali per dare vita a questo nuovo Brescia in terza serie. La priorità assoluta è stata data al mantenimento del professionismo. Cos’è avvenuto a seguito di quell’incontro è presto detto: il presidente della Feralpisalò, Giuseppe Pasini, ha dato il proprio assenso e quindi il progetto ha preso piede. Uno scenario tutt’altro che nuovo sul lago di Garda, dato che pure l’attuale club nasceva dalla fusione tra il vecchio Salò e la Feralpi Lonato.
Come dicevamo poc’anzi, qui a Cesena ne sappiamo qualcosa. In linea puramente teorica, non è diverso da quanto accaduto nel 2018 quando il Romagna Centro ha cambiato denominazione e ha raccolto l’eredità del defunto AC Cesena. Una matricola a conti fatti diversa che non consentiva quindi di mantenere continuità sportiva e storica presso la FIGC. Le partecipazioni ai campionati (Serie A, B, C, serie dilettantistiche), i risultati ottenuti, le promozioni, le retrocessioni, i trofei vinti sono legati alla matricola. Se la matricola cambia, il passato di quel club è ‘ufficialmente rimosso’. I risvolti pratici di quanto sta accadendo a Brescia però cambiano considerevolmente. Il Romagna Centro non aveva il benché minimo seguito a livello di tifo, non aveva trascorsi nel calcio professionistico ed inoltre era la squadra di Martorano, un quartiere che per quanto periferico è comunque parte del comune di Cesena. Ci stava che raccogliesse l’eredità morale del Cesena, appena sparito. Salò, invece, non è parte del comune di Brescia ma è città a sé stante, a trenta chilometri abbondanti dal capoluogo di provincia. La Feralpi non è squadra ‘di quartiere’: non solo milita da anni tra i professionisti ma annovera pure una partecipazione alla cadetteria, con tanto di sfide ufficiali contro quel Brescia di cui si appresta a prendere il posto. E, soprattutto, il tifo salodiano esiste ed è radicato al di là di quanto la partecipazione sia più contenuta rispetto a tante piazze con seguito di differenti dimensioni.
Quanto si assomigliano e quanto invece divergono le due situazioni? Cosa separa quel che sta accadendo oggi a Brescia e quanto vissuto da Cesena nel 2018? Sottigliezze di lana caprina per chi ne fa una questione di principio, impattanti per chi invece ha un approccio più concreto. Sta di fatto che a Cesena non si levarono grandi proteste o manifestazioni di disappunto per la scelta effettuata. Anche chi all’epoca si era speso pubblicamente su Twitter («non su Telegram, su Twitter» [cit.]), prima di iniziare a ricorrere in maniera sistematica a profili falsi su altri social, sottolineando come “il Martorano non dovesse diventare il Cesena per interessi di bottega” si è poi comodamente adeguato alla soluzione adottata e di queste lamentele sul suo giornale non se ne sono più sentite. A Brescia invece sono in tanti a storcere il naso e ad invitare il boicottaggio di questo escamotage, promuovendo iniziative che coinvolgono direttamente FIFA e Federcalcio (trovate tutto a questo link).
Ecco quindi la problematica che ha spinto Dimitri Bisoli a rifiutare l’offerta della Feralpisalò. Non un discorso prettamente economico o di categoria di militanza. E neppure si tratta di mere prospettive di carriera. Chi afferma che una discesa in terza serie avrebbe potuto indirizzare il suo percorso nel calcio giocato verso il crepuscolo fa una ricostruzione raffazzonata, semplicistica, posticcia. Vero è che il triennale messo sul piatto dal Cesena per un calciatore che ha già valicato la soglia dei trent’anni costituisce un’occasione irrinunciabile. Vero è che ci saranno tanti tifosi biancoblù dispiaciuti dal non vederlo più con la fascia di capitano al braccio. Vero è che in Lombardia c’è già chi gli dà del ‘mercenario’, facendogli prudere le mani e inducendolo alla tentazione di rispondere per le rime mediante il profilo instagram della moglie. Però… ‘Bisolino’ non si è prestato a diventare il volto di questo nuovo Brescia che, piaccia o no, per tanti bresciani ad oggi non è il Brescia e forse non riuscirà mai ad essere visto come tale. Se Dimitri Bisoli avesse accettato, sarebbe divenuto a sua volta motivo di ulteriori frizioni e spaccature. Non sarebbe certo stato osannato come De Feudis e Biondini quando dissero immediatamente di sì a Lelli prima ancora di sapere cosa ne sarebbe stato del Cavalluccio.
La scelta di tornare a Cesena, se non di cuore, ha comunque ragioni molto pragmatiche: la sua famiglia e i suoi affetti risiedono in zona e l’opportunità di giocare a casa propria è stata un fattore determinante, respingendo le offerte di Spezia e Padova. E la decisione di non prendere parte al nuovo Brescia non può essere interpretata solo nella prospettiva di cinico opportunismo. Le ragioni di questo diniego sono tutte in quel «Vediamo chi prende il titolo che garanzie può dare». Quelle garanzie non sono arrivate. Per Bisoli, accettare avrebbe significato divenire il vessillo di un contrasto. Un punto di divisione anziché di unione. Restando capitano, volto e simbolo di una squadra non riconosciuta da un’ampia porzione della tifoseria bresciana, si sarebbe trasformato in un pomo della discordia. Trascendendo la logica esclusivamente sportiva ed economica, si è trattato di un atto di profondo rispetto verso il sentimento reciproco che c’è stato tra Bisoli e Brescia, senza protrarre una relazione che in ogni caso sarebbe ormai stata compromessa.