CORRIERE ROMAGNA - Bianconeri di ieri, Scalabrelli "Cesena città speciale"

Buongiorno Scalabrelli, quando ha capito che era arrivato il momento di appendere i guanti al chiodo?
«La voglia di smettere non l’ho mai avuta, a dire la verità, ma quando sono andato a giocare a Tivoli (nel 2003, ndr) ho capito che non riuscivo più a stare lontano da mia figlia Nicol e dalla famiglia. A volte tornavo a casa alle 4 di notte del lunedì e martedì mattina dovevo ripartire subito. No, non aveva più senso e allora ho smesso».
Ora cosa fa?
«Quest’anno ho allenato i portieri a Cervia, e nel weekend aiuto mia moglie nella gestione del suo chiosco di piadine a Borgo Paglia. Mi occupo della cassa: faccio gli scontrini e sono una specie di amministratore delegato, senza firma però. Non avete l’idea dell’ impegno che ci vuole per gestire un chiosco di piadine».
Lei è uno dei tanti non romagnoli di nascita che dopo aver giocato nel Cesena decidono di vivere qua. Perché ha scelto Cesena?
«Perché ho conosciuto Barbara, mia moglie, perché qua è nata mia figlia e perché Cesena è una città speciale, vicinissima a tutto e a misura d’uomo, come piace a me».
Con la maglia del Cesena ha giocato per tre stagioni: ha qualche rimpianto?
«Chiunque nella vita ha almeno un rimpianto. Il mio sogno sarebbe stato quello di chiudere la carriera da giocatore qua, perché avevo capito che sarebbe stato il posto giusto e ho indovinato, visto che ormai sono diventato cesenate e ho messo su famiglia qua».
Perché non ha chiuso la carriera nel Cesena?
«Perché dopo quella retrocessione nel 2000 qualcosa purtroppo si è rotto. E dire che quando sono arrivato a Cesena ho subito vinto un campionato e siamo tornati subito in B. Purtroppo, però, nel calcio puoi fare bene anche per dieci anni di fila, sbagliare l’ultimo mese e rischiare di essere ricordato solo per quello».
Quanto è stato difficile cancellare quella retrocessione?
«Difficilissimo. Ognuno può dire quello che vuole, ma la verità è che ci siamo rilassati troppo presto».
Il suo rapporto con i tifosi del Cesena?
«Con alcuni ottimo, con altri meno buono. Ad alcuni sono piaciuto, ad altri no, ma è normale. Io ho sempre dato il massimo e dunque ho la coscienza pulita. Semmai, quell’anno, mi ha infastidito la superficialità con cui è stata digerita quella retrocessione. Purtroppo certa gente ha ascoltato troppe campane finendo per mettere in giro voci assurde».
Tipo che lei vendeva le partite?
«Ne ho sentite di tutti i colori, anche che ero cieco. Cesena è un paesone, tutti conoscono tutti e spesso bisogna starci attenti con le chiacchiere».
In queste settimane, invece, è scoppiato un vero e proprio scandalo legato alle scommesse: lei che idea si è fatto?
«Purtroppo in questo caso ci sono le intercettazioni, che spazzano via molti dubbi. Mi dispiace vedere coinvolti ex compagni come Parlato e Santoni, ma anche Bettarini, con cui ho giocato a Lucca, e Signori, con il quale ho condiviso una breve esperienza in Ungheria».
Torniamo alla sua nuova vita: è più difficile fare il portiere o insegnare a un portiere?
«Sono due esperienze stupende, ma diversissime. Quando facevo il portiere, tutti pensavano a me e si allenavano per me. Adesso è il contrario: devo organizzare l’allenamento, devo correggere un’uscita, devo spiegare come fare una parata. Mica vero che il portiere ha più responsabilità: ne ha molte di più un preparatore».
Antonioli ha un anno in più di lei, eppure è ancora tra i migliori portieri in serie A: è un motivo di orgoglio o un motivo di preoccupazione?
«Francesco non mi sorprende per niente. Anzi, mi danno molto fastidio quelle persone che ti giudicano in base all’età. La storia recente insegna: per un portiere la carta d’identità non conta nulla e se uno a 40 anni ne ha ancora voglia, beh, è giusto che giochi e che non sia messo in discussione».
Quest’anno ha seguito il Cesena?
«Allo stadio sono andato poche volte, perché ero impegnato con il Cervia, ma grazie a Sky non ho perso una partita. Cesena è diventata la squadra del cuore e quest’anno i ragazzi hanno compiuto un’impresa, meritatissima».
Ora che ha smesso com’è organizzata la sua giornata-tipo?
«In estate è molto semplice: al mattino mi alleno, al pomeriggio vado al mare con Nicol e alla sera, quando mia moglie ha bisogno, vado al chiosco. Si sta benissimo, davvero».
Qual è il primo ricordo quando vede un paio di guanti?
«Ripenso alla mia vita. Fino a un po’ di anni fa i guanti da portiere erano al primo posto, oggi sono scesi al secondo».
C’è una persona che le manca particolarmente oggi?
«Sì, Edmeo Lugaresi. Mi manca soprattutto come uomo, non solo come dirigente: mi rivedevo in lui, come padre, perché Edmeo voleva bene a tutti noi. E’ stato uno straordinario padre di famiglia e mi ha insegnato tanto».