Meo, Steve Dillon e le serate in zona Madonna delle Rose

Ricordi di calci e presidenti che non ci sono più
26.09.2017 13:00 di Gian Piero Travini   vedi letture
Edmeo Lugaresi
Edmeo Lugaresi

Una volta ero parecchio in là con i lavori.
Avrò avuto diciotto-diciannove anni, o roba simile. Ed ero bello che andato, in una delle serate delle 3 del mattino. Le serate dove mi scioglievo il nodo alla cravatta nera. Mi sbottonavo il gilet nero. Mi toglievo la camicia nera. Le serate dove rimanevo in canotta. Bianca. Dove prendevo una scopa di saggina, pensavo divertito che o era una scopa di saggina o erano i capelli della tipa dei Sixpence Non The Richer - quelli che cantavano ‘Kiss Me’ -, e mi mettevo a spazzare per terra la zona palco del Gallery’s. Le serate dove Biagio poteva prendere il controllo dello stereo e si andava di King Crimson fino al mattino. Le serate dove non aveva poi così tanta importanza che io fossi o meno un cliente. Pagante o meno. Anzi… quella doveva proprio essere una serata ‘meno’, nel senso che a un certo punto non aveva più senso farmi pagare perché tanto me lo guadagnavo con discreti spettacoli comici.
S’andava eleganti e snob d’Alexander con la noce moscata, al Gallery’s Pub. Di sontuose Guinness medie, al Gallery’s Pub. Di piadina ai wurstel senza salse, al Gallery’s Pub. Di panino hamburger e pancetta. Al Gallery’s Pub. Si guardavano i quadri con la campagna pubblicitaria della Coca Cola disegnata da Steve Dillon e si commentava: “Ehi, ma quello… quello è Steve Dillon!”. Buon vecchio Steve Dillon, che te ne sei andato e ci hai lasciato senza il tuo graffio. Ogni volta che vedevamo i tuoi poster era sempre la stessa storia, vecchio Steve. Magari non subito. Magari non era il primo pensiero. Ma prima o poi lo pensavamo davvero, Steve. E tu eri dei nostri. Sempre dei nostri. Durante la serata, si capisce, ma non subito. Guardavamo i quadri, distratti. Chiacchiere. Poi tornavamo sui quadri, un po’ meno distratti. Scrutandoli. Poi ci si guardava, sogghignando. Diavolo, potevamo scommetterci, eravamo gli unici lì dentro ad aver letto Preacher. O Hellblazer. O il Punitore di Garth Ennis… e allora, il rito.
“Ehi, ma quello… quello è Steve Dillon!”.
Il rito. Uno dei tanti. Il Gallery’s era pieno di riti. Ovunque ti girassi c’era un rito pronto per essere celebrato. Uno dei tanti era anche far finta di non ricordarsi che la settimana prima la patata fritta in società l’avevi pagata proprio tu. O era scroccare una sigaretta a Lencio. O a Biagio, che ancora non se le faceva da solo e quindi non riusciva a valutare cinicamente l’importanza di un pacchetto di Winston blu pieno. Con buona pace del Cremonini. E di Kurt, da troppo tempo.
E mai che si ritornasse sobri, a prescindere da quanto tardi si facesse. Ubriachi di vita. Ubriachi di cazzate. Ubriachi come se ci fosse differenza. O forse no. Forse non s’era ubriachi. Beh, forse ce lo raccontavamo. Perché voleva dire non aver sprecato tutti quei litri di birra invano. Per sentire qualcosa. Per non sentir nulla. Almeno.
E non era nemmeno alcol... no, era sopravvivenza allegra.

Erano le serate in cui si passeggiava per Cesena con la testa leggera.
Cesena di notte meritava una testa leggera. E, nei suoi momenti migliori, la merita ancora.
Credo che qualsiasi città, di notte, meriti la testa leggera. Ma Cesena se la merita di più, non c’è nulla da fare. Ho passeggiato, di notte, per molte città d’Italia. Ma Cesena… è sempre un’altra cosa. Cesena sarà sempre un’altra cosa. E ritrovarsi in zona Madonna delle Rose voleva dire avere una lunga, lunga nottata davanti. Specie se si era in buona compagnia: si scavalcavano i cancelli dell’oratorio della parrocchia per improvvisare un calcetto notturno, a sedici anni buono pure per qualche limone. Non troppo duro, però, perché il romanticismo in zona Madonna delle Rose non aveva niente a che fare con quello di Rio Eremo.
Il romanticismo in zona Madonna delle Rose era fatto di strani complimenti che trovavi in strani libri tipo Elena, Elena amore mio di De Crescenzo o in classiconi da lingua sicura e forse qualcosa di più se te la sapevi giocare come Il rosso e il nero di Stendhal. Ed era fatto anche di qualche porcheria razzata tra le meno sconce di De Sade, se proprio proprio. Il romanticismo in zona Madonna delle Rose era fatto di prime erezioni col culo indietro, perché non le sentisse la bimba di turno, sai mai che si spaventasse. O, peggio, sai mai che volesse farlo. In fin dei conti, noi s’era lì per un calcetto notturno con gli amici, e del goldone non v’era traccia. Il limone quasi duro era semplicemente un tentativo di rotolar fuori dal pallone. Peraltro non riuscito, perché con la coda dell’occhio la partitella incerta la guardavamo eccome. Limone quasi duro. Heineken di straforo, caldacalda™. E il calcetto notturno. Madonna delle Rose appena un po’ hardcore melodico. Tipo gli Offspring, che se dicevi i Bad Religion ti guardavano come se fossi una bestia rara. Almeno fino a che non arrivava il tipo con i Blind Guardian. Beh… allora la bestia rara diventava lui.
Ma a diciotto-diciannove anni, o roba simile, non si limonava più all’oratorio. Anche perché la sobrietà per scavalcare era un po’ una chimera, e già ai tempi di Morandi avevano capito che Morandi non ti faceva chiavare. No. Per quello serviva Baglioni. E se uscivi dal Gallery’s bello in là, di sicuro Baglioni non te lo eri mai cagato di striscio.

E, insomma, è una di quelle serate in cui faccio finta di non essermi mai cagato di striscio Baglioni. E mi ritrovo in zona Madonna delle Rose. E, spavaldamente etilico, o etilicamente spavaldo - di certo non eticamente Marcovaldo -, inizio a spisciacchiare contro un cancello di una casa.
E, tipo, alzo lo sguardo e penso: “Bòòòòòò… bella ‘sta casa… peccato che ci sono degli stronzoni che ci pisciano contro”. E in quelle sere in cui stai mingendo contro una cancellata, il fascino discreto della voce bassa si perde, la testa leggera inizia a ragionare… e devo averlo urlato, quel pensiero. Perché a un certo punto, d’in su i veroni del (bianconero) ostello, sento uno che urla: “Ue ue, marinaio… ’sa fet’?”.
Io tolgo la destra che regge il birello onde evitare che l’aria della notte lo intirizzisca, con esiti nefasti tanto per l’ego quanto sul controllo del getto e, quindi, sulla salute dei jeans, lo saluto e gli faccio: “Sto pisciando sul cancello, capo. Bolgia!”.
E però quello non la ciuccia del tutto, e vedo che scompare dalla finestra, per riapparire poi alla porta in canotta. Tracagnotto, capello bianco, voce un po’ nasale: “Tci propri un sburòn, ’llora… ”. E inizia a corrermi incontro con le ciabatte e il pantalone del pigiama.
Io scappo così veloce che c’ho ancora l’uccello in mano, che tanto l’avevo riagguantato al volo, e alla meglio mi ricompongo in corsa, inciampando ma riprendendomi all’ultimo senza finire a fare all’amore con il marciapiede. Quello mi corre dietro, poi si accorge che la porta di casa si sta chiudendo dietro di lui e, imprecando alla romagnola, meraviglioso duro della vecchia, se ne torna in casa.

Ognuno ha il suo ricordo di ‘Meo’ Lugaresi. Il mio è questo.
In una di quelle serate romagnole dove ti fai inseguire dal presidente del Cesena, anche se allo stadio non ci hai ancora mai messo piede. Anche se ci vorranno anni prima che tifi Cesena.
Perché, in fin dei conti, anche in zona Madonna delle Rose, che si vada o no a limonar quasi duro al calcetto dell’oratorio, c’entra sempre il pallone.